Data: 22/02/2014
La crisi non passa, rigore e austerità soffocano la ripresa
L’analisi e le proposte della Cgil per cambiare una politica che non risolve i problemi
<La crisi non è finita. Anzi il contesto economico e sociale è peggiorato negli ultimi mesi e continuerà a peggiorare se non si realizzerà il cambiamento necessario. Un cambiamento che deve essere ricercato innanzitutto in Europa, l'area economica che secondo gli ultimi dati e tutte le più recenti previsioni cresce di meno al mondo ma che potrebbe condurre l'intera economia globale fuori dalla crisi. Ma per fare questo bisogna cambiare la politica economica dell'Area Euro, riconoscere il fallimento dell'austerità e smettere di difendere le posizioni di vantaggio finanziario e commerciale dei paesi forti>. E' quanto scrive la Cgil in un'analisi che spiega quel che accade e soprattutto evidenzia gli errori e i ritardi di scelte politiche ed economiche che non soltanto si sono rivelate inefficaci ma che hanno anche complicato i problemi. Una sorta di approccio ideologico all'austerità e al rigore del quale stanno pagandolo lo scotto le persone più deboli e i lavoratori più esposti, del quale il sindacato chiede un rapido cambiamento anche avvalendosi del Piano del lavoro e delle proposte che contiene. Se la situazione è questa, continua la Cgil, <solo un governo economico dell'Eurozona più equo e democratico, per una repressione della speculazione finanziaria e il rilancio delle economie reali, può garantire una ripresa solida, basata su una crescita diffusa. Persino la Germania ha rallentato la sua corsa e inizia a ridurre le proprie esportazioni e a crescere sempre meno. Ormai è evidente che il controllo esagerato dell'inflazione e il rigore dei conti pubblici deprimono gli investimenti e l'occupazione più di quanto riescano a incoraggiarli. E non è possibile recuperare l'occupazione perduta, aumentare i salari ed estendere il welfare, le uniche condizioni per ritrovare la crescita, senza una maggiore quantità e qualità degli investimenti (prima pubblici e poi privati), senza nuovi posti di lavoro, senza nuovi consumi (anche qui, prima pubblici e poi privati). Arginare la crisi e trovare la via di un nuovo sviluppo rappresentano due aspetti della stessa sfida. Per questo occorre aprire una vera e propria "vertenza" con l'Europa per cambiare le politiche di austerità e rilanciare la riforma del sistema finanziario e bancario (tassa sulle transazioni finanziarie, separazione tra banche di risparmio e banche d'affari, ecc.). In Italia sono coscienti di questa analisi tutte le parti sociali, compresa la Confindustria, che per la prima volta evoca l'intervento pubblico. Meno consapevoli sembrano dimostrarsi le stesse istituzioni pubbliche e gran parte degli attori politici. Anche per questo la crisi economica e finanziaria si sta tramutando in una crisi istituzionale e democratica. Ed anche per questo il nostro Paese vive "una crisi nella crisi". Pur restando la seconda economia industriale dell'Eurozona, l'Italia registra infatti la maggiore intensità della crisi, a partire dalla caduta del Pil (circa 9 punti percentuali persi dal 2007 al 2013) e dell'occupazione (oltre 1,2 milioni di posti di lavoro in meno dall'inizio della crisi, che hanno contribuito a portare la platea dei disoccupati, degli inoccupati, degli scoraggiati e dei sottoccupati, complessivamente, ad oltre 7 milioni di persone, di cui circa la metà sotto i 35 anni). Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) ha raggiunto inoltre livelli inaccettabili (oltre il 40%), raddoppiando dall'inizio della crisi e ora tra i più alti d'Europa (dopo Grecia, Spagna e Croazia). Per molti versi il nostro sistema-paese anticipa la recessione, con un declino economico che affonda le radici da un lato nella debolezza strutturale del tessuto produttivo (bassa produttività del capitale prima ancora che del lavoro, specializzazione manifatturiera mediamente a basso valore aggiunto, piccola dimensione d'impresa, insufficiente innovazione di processo e di prodotto, ecc.) e dall'altro lato nelle forti iniquità della distribuzione del reddito nazionale (oltre 1000 miliardi di euro in vent'anni di perdita cumulata della massa salariale in favore di profitti e rendite), del reddito disponibile delle famiglie (anche dopo tasse e trasferimenti l'Italia è il sesto paese più diseguale del mondo) e della ricchezza (il 10% delle famiglie italiane detiene il 46,6% del patrimonio privato, finanziario e immobiliare, al netto dei mutui e dei debiti). Questa situazione congela quote impressionanti di ricchezza che non si trasferiscono all'economia reale e generano solo rendita. Finanziarizzazione e mercati sregolati hanno fatto il resto. Non a caso la produzione industriale e gli investimenti si sono ridotti strutturalmente del 20%, il livello dei consumi è ritornato a quello del 1997 e si contano in Italia oltre 4,8 milioni di persone in povertà assoluta ed altri 9,5 milioni in povertà relativa, cioè lavoratori e lavoratrici, spesso precari o in cassa integrazione, esodati, pensionati e disoccupati, sotto la soglia di sussistenza. Occorre rilanciare politiche per sostenere la domanda (investimenti, spesa pubblica, occupazione, redditi, consumi) altrimenti i conti non possono tornare a posto. Il debito pubblico (e la spesa pubblica primaria, al netto degli interessi passivi sul debito) peraltro è aumentato solo in termini nominali, mentre è persino diminuito in termini reali, ma meno del Pil reale. E le finanze pubbliche, il debito pubblico e il deficit pubblico si misurano in rapporto al Pil, cioè in ragione della crescita. La sostenibilità del bilancio dello Stato dipende dalla capacità dell'economia nazionale di crescere, svilupparsi e occupare tutta la forza lavoro disponibile. Non il contrario. Ad oggi solo Italia e Germania rientrano tra i parametri europei (mantenendo il deficit sotto il 3% e programmando manovre di riduzione del debito da qui ai prossimi vent'anni), sacrificando sull'altare dell'austerità ogni manovra finanziaria pubblica e perciò ogni politica economica, fiscale, sociale, industriale. Nel 2014 l'Italia conta addirittura il maggior avanzo primario (spesa pubblica meno entrate pubbliche, al netto degli interessi sul debito pubblico) tra tutte le economie avanzate del pianeta. Non serve a nulla. Esistono importanti margini nazionali per trovare la via d'uscita dalla crisi. Tanto più se si pensa alle risorse derivanti da una potenziale lotta all'evasione fiscale (che comporta ogni anno 130 miliardi di gettito mancato) e dalla correzione delle altre distorsioni del sistema fiscale (ad esempio con un'imposta sui grandi patrimoni finanziari, come in altri paesi europei, con cui si recupererebbero 10 miliardi di euro ogni anno). Queste possibilità si trovano tutte in capo al ruolo economico dello Stato, e dunque a un intervento pubblico volto a creare lavoro, investimenti, equità e nuova crescita, determinando per questa via - secondo studi internazionali molto documentati - anche l'equilibrio dei conti pubblici. In questo modo il nostro Paese potrebbe anche riaprire la partita europea e guidare una vertenza di cambiamento, oltre che di ragionevolezza. Il Piano del Lavoro della Cgil, anche se nasce prima, si muove nella stessa traiettoria del "Nuovo Piano Marshall" della DGB e della richiesta della Ces, l'organizzazione europea dei sindacati, di un Piano straordinario della Ue per la crescita e l'occupazione. Ciò che accomuna queste diverse strategie è l'idea che le politiche di austerità non aiutano a uscire dalla crisi (anzi la peggiorano) e che sia necessario un New Deal in Europa per garantire sviluppo e occupazione. Una politica economica neokeynesiana da opporre al liberismo finanziario senza regole. Il Piano del Lavoro della Cgil si ispira, in questo, alla proposta che Di Vittorio lanciò alla fine della seconda guerra mondiale per la ricostruzione del Paese. Essa prevedeva la necessità di rinnovare le infrastrutture (edilizie, elettriche, stradali, ferroviarie, idrogeologiche) per riunire un territorio devastato, aiutare l'attività delle imprese e creare lavoro. La Cgil proponeva, allora, un piano di modernizzazione al Paese e metteva a disposizione ore gratuite di lavoro dei propri iscritti. Molte strade e canali di bonifica nacquero sulla base di quella proposta. Tuttavia la politica ignorò quel disegno di politica economica: sia la Democrazia Cristiana al governo, sia il Pci all'opposizione, non ne compresero il carattere innovativo e le potenzialità. Solo molti anni dopo i primi governi di centro sinistra sembrarono adottare politiche economiche basate sulla spesa pubblica come leva di sviluppo che andavano nella direzione del Piano del lavoro di Di Vittorio. Ci sono molte analogie e qualche differenza tra quell'epoca e la situazione italiana di oggi. La politica italiana oggi è distratta da altro e per 20 anni almeno si è attestata a difesa del liberismo dominante in Europa e nel mondo. Anche a sinistra la cultura keynesiana ha perso consenso in favore di un pensiero politico-economico che preferisce ridurre il ruolo dello stato nell'economia e nella società. Anche oggi il Piano del Lavoro della Cgil si muove nel silenzio e nell'indifferenza del padronato e delle istituzioni di governo (che parlano molto di lavoro senza fare nulla contro la disoccupazione). Vi sono però alcune novità nel Piano del Lavoro di oggi che vanno sottolineate. La più importante è che il Piano del lavoro della Cgil è per una crescita basata sull'innovazione, sulla necessità cioè di coniugare la ripresa economica, necessariamente selettiva, con salti di tecnologia che permettano la creazione di posti di lavoro qualificati. Questo perché l'Italia ha accumulato troppe arretratezze in molti campi che rendono bassa la produttività di sistema e la competitività del Paese nei confronti del resto d'Europa: la manutenzione idro-geologica, la sicurezza antisismica, il trasporto pubblico locale, il sistema energetico, la riqualificazione urbanistica delle città, i servizi pubblici locali, l'efficienza della pubblica amministrazione, la scuola, l'assistenza, l'integrazione, ecc. Il Piano del lavoro punta a queste priorità e chiede al governo una nuova capacità programmatica e alle imprese una nuova responsabilità sociale nei confronti del Paese. Ma, almeno in Italia, non è realistico immaginare che il governo (comunque composto) sia in grado di operare una "direttiva" nazionale che avvia e aiuta l'innovazione in tutti i campi citati: non glielo permette l'Europa, da solo non ne ha le forze. Ecco perché il Piano del Lavoro intende coinvolgere i governi regionali e locali (Regioni e Comuni) nell'attivazione e realizzazione del Piano. Anche per le differenze che esistono tra Nord e Sud del paese e, con la crisi, anche tra aree del Nord e del Centro. In alcune regioni non esistono trasporti locali, in altre mancano le scuole per l'infanzia o il trattamento dei rifiuti: solo agendo territorialmente è possibile affidare ad ogni area (e a ogni comunità locale) la responsabilità di rispondere ai suoi veri e primari bisogni. In secondo luogo le "Autonomie locali" hanno funzioni di spesa e di programmazione dei territori molto rilevanti, che debbono essere orientate e finalizzate all'innovazione e alla creazione di lavoro qualificato. Questo percorso possibile (ma non facile) di connessione interistituzionale in Italia è necessario se si vuole che le politiche di crescita abbiano una diffusione omogenea e una effettiva attuazione. La Cgil dunque si propone di essere il motore di questo percorso di coinvolgimento e partecipazione delle forze economiche, istituzionali e della ricerca nei territori con la costituzione di Tavoli Locali per il Lavoro che analizzino i bisogni delle comunità e condividano le possibili risposte da dare secondo una logica di concertazione delle scelte di programmazione e spesa. Poiché la disoccupazione giovanile è la vera emergenza prodotta dalla crisi, è opportuno che i giovani e i loro saperi vengano coinvolti dal sindacato non solo come nuovo lavoro generato dal Piano ma come risorsa strategica di conoscenza, sapere scientifico e tecnologico preziosi (anche per il sindacato) da impiegare fin dalla fase analitica e progettuale. Il Piano del Lavoro è uno dei cardini del dibattito congressuale della Cgil che si concluderà a Rimini. È auspicabile che il nuovo governo almeno si confronti con questa impostazione pragmatica di politica economica e rinvii a fasi successive un riordino legislativo del mercato del lavoro. In ogni caso le strutture territoriali della Cgil si impegnano ad avviarne la realizzazione nei prossimi mesi, attivando i Tavoli per il Lavoro e coinvolgendo istituzioni, imprese, associazioni, scuola e università e giovani>. |
|||||||||||
www.cgilabruzzomolise.it ~ organizzazione@cgilabruzzomolise.it |