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Data: 14/09/2014

Redditi, i lavoratori perdono salario: il peso delle tasse sulle spalle delle famiglie

Redditi, i lavoratori perdono salario: il peso delle tasse sulle spalle delle famiglie
Una ricerca promossa dalla Fisac nazionale, stipendi medi di circa 1300 euro mentre i manager guadagnano oltre 200 volte di più

Dal Duemila ad oggi i contratti nazionali sono stati un argine contro l'inflazione, un argine tuttavia non abbastanza forte per reggere il combinato disposto del peso del fisco e della bassa produttività. Il reddito familiare disponibile tra il 2000 e il 2013 registra infatti una perdita di circa 8.312 euro per le famiglie dei lavoratori, a fronte di un guadagno di 3.142 euro per quelle di professionisti e imprenditori. La scure del fisco inoltre si è abbattuta sui salari determinando un vero e proprio crollo: se la pressione fiscale nel 2013 sui redditi da lavoro fosse rimasta quella del 1980 il salario netto mensile sarebbe stato di 1.600 euro, invece che superare di poco i 1.300. Non si sarebbe generata dunque una perdita di quasi 300 euro al mese, circa 3.500 euro di tasse in più pagate ogni anno dai lavoratori.

E' quanto emerge dal rapporto sui salari dell’Isrf Lab, curato da Agostino Megale, segretario generale della Fisac-Cgil, in collaborazione con Nicola Cicala. Un rapporto titolato “Poveri salari”. Il testo analizza le diverse dinamiche che si riflettono sul salario: dalla crisi e le sue cause fino al peso del fisco e dell'inflazione, passando per la scarsa produttività “di sistema”, il tutto a partire dal tema della diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Prendendo in analisi gli anni della recrudescenza della crisi, dal 2010 al 2013, il rapporto dell’istituto di ricerche della Fisac evidenzia che “l'inflazione effettiva accumulata è stata pari al 9,1% a fronte di retribuzioni contrattuali cresciute del 6,9%, che al netto delle tasse si riducono al 6%”. Così si è registrata in questi ultimi quattro anni una perdita secca del 3,1%, tale che “i salari tengono l'inflazione ma subiscono il peso delle tasse e la mancata crescita della produttività di sistema”, afferma Agostino Megale.

Per quanto riguarda invece l'anno in corso, le previsioni dello studio, alla luce della “positiva riduzione fiscale degli 80 euro”, attestano una crescita delle retribuzioni nette del 2,6%, frutto degli effetti di un'inflazione a fine anno dello 0,3%, di una crescita delle retribuzioni contrattuali dell’1,6% e gli 80 euro di minori tasse decisa dal governo per 10 milioni di lavoratori sotto i 1.500 euro al mese. Per quanto riguarda la questione salariale, tema centrale dei rapporti del segretario della Fisac, lo studio registra come “il salario netto mensile medio di un lavoratore italiano nel 2013 è stato pari a 1.327 euro. Coloro che guadagnano, pur lavorando, meno di 1.000 euro al mese oscillano inoltre tra i sei e i sette milioni di persone. Un giovane neolaureato, peraltro mediamente precario, se va bene oscilla tra gli 800 e i 1.000 euro mensili fino a trentacinque anni. Mentre oltre sette milioni di pensionati percepiscono meno di 1.000 euro mensili”. E se il salario netto si è attestato oltre 1.300 euro al mese, il raffronto con quello di un lavoratore tedesco è impietoso: quest'ultimo infatti in un anno guadagna in media 6 mila euro in più.

Tra i più colpiti dalla questione salariale ci sono i giovani. Megale nel rapporto denuncia “come un giovane degli anni Settanta guadagnasse mediamente il 10% in più della media nazionale, mentre negli anni della crisi ne porta a casa il 12% in meno”. La diseguaglianza è il frutto di una progressiva sperequazione di lungo periodo: “Nel 1970 un manager guadagnava venti volte di più di un operaio, mentre oggi arriviamo a picchi che superano le duecentocinquanta volte. Diseguaglianze che si sostanziano anche dall'analisi delle dichiarazioni fiscali, laddove si rileva che “oltre 15 milioni di lavoratori dipendenti guadagnano in media poco più di 1.300 euro netti al mese. Di questi circa 7 milioni ne guadagnano meno di 1.000. I redditi maggiormente dichiarati sono quelli da lavoro dipendente e da pensione, sia in termini di frequenza (86%) che di ammontare (78%), mentre quelli da lavoro autonomo costituiscono solo il 4,2%. Inoltre il 27% dei contribuenti (11 milioni di persone) paga zero Irpef al fisco, il 50,8% dichiara meno di 15 mila euro l'anno e il 40,4% dichiara redditi tra i 15 e i 30 mila euro”. Da segnalare poi, stando ancora al rapporto, che alla luce delle analisi condotte sui dati del Ministero dell'Economia si evince che solo lo 0,9% dei contribuenti dichiara redditi superiori ai 100 mila euro annui. In conclusione: il 90,9% dei contribuenti (37 milioni di persone) dichiara di guadagnare annualmente meno di 35 mila euro. E questo stando alla categoria dei lavoratori.

Passando ai pensionati, i dati dello studio mostrano che oltre 7 milioni guadagnano meno di 1.000 euro netti al mese, una parte rilevante dei 16,8 milioni di titolari di prestazioni pensionistiche. Ma è soprattutto nel confronto tra le retribuzioni dei lavoratori dipendenti e i compensi dei top manager che diventa lampante la diseguaglianza. Il salario medio dei primi infatti si attesta sui 28.593 euro annui, mentre i compensi dei secondi viaggiano sui 6,5 milioni. Una distanza tale che Megale ricorda che per un lavoratore dipendente ci vogliano in media 225 anni per guadagnare quanto un top manager percepisce in un anno. In questa sperequazione si innesta anche una questione fiscale. Nel rapporto si calcola che se la pressione fiscale sui redditi da lavoro fosse rimasta quella del 1980, il salario netto mensile sarebbe stato mediamente di 1.616 euro, invece che di 1.327. Una perdita di circa 290 euro al mese, 3.500 euro di tasse in più pagate ogni anno dai lavoratori.

Riguardo infine la produttività, per il rapporto “non c’è dubbio che abbiamo un problema di produttività che caratterizza il nostro sistema produttivo. Rispetto alla Germania scontiamo un differenziale di oltre 25 punti percentuali accumulato negli ultimi 15 anni. Bisogna intervenire quindi per favorire la crescita dimensionale delle imprese” anche perché “la produttività è vitale per il Paese e va affrontata anche attraverso una programmazione, attraverso obiettivi di recupero da prefissarsi”.

Se questi sono i numeri che descrivono lo stato dei salari, Megale analizza anche le cause di quanto accade. Per il segretario della Fisac “il problema della nostra economia è la contrazione degli investimenti, sia pubblici che privati: mentre lo Stato si trova a fare i conti con i vincoli di bilancio, le banche dal 2011 ad oggi hanno ridotto di 63 miliardi di euro il credito concesso a famiglie e imprese”. Peso del fisco, disuguaglianze nella distribuzione del reddito, scarsa produttività di sistema: questi sono i nodi da affrontare, a partire dal rinnovo dei contratti nazionali ancora aperti e che coinvolgono 8 milioni di persone, dal superamento del blocco per i dipendenti pubblici al rinnovo dei bancari. Per affrontare la questione Megale propone quindi “un’azione del sindacato unitario nell’ambito di un’alleanza con le forze migliori del paese, per affrontare i nodi della crisi” e che dovrebbe trovare uno sbocco “in un tavolo di confronto con il governo: un patto, un’alleanza, lo si chiami come si vuole, ma che ricalchi ciò che si fece nel ‘93 con il governo Ciampi”. Una ricetta composta da quattro linee di intervento centrate su crescita, eguaglianza, occupazione e innovazione.


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